«Quando penso a Te che sei stato il mio aiuto» (Salmo 62)

L’anniversario della morte di don Tommaso Latronico raduna sempre, nella sua Nova Siri, un gran numero di fedeli attorno alla celebrazione eucaristica in sua memoria, una celebrazione che si tiene puntualmente ogni anno da oltre trent’anni.

Cosa ridesta nella comunità cristiana l’evento di questa morte? Ridesta indubbiamente tanti ricordi, il ricordo per esempio di un’amicizia. Ma, in ognuno dei fedeli, ridesta qualcosa in più, qualcosa che rimanda al profondo significato della propria vita e al valore della stessa fede cristiana. Qualcosa che fa fare memoria del Signore nella vita della comunità. La memoria della Presenza.

E già questo è un prodigio. Perché solitamente la memoria va a qualcosa che non c’è più. A qualcosa che si è perso nel passato. Invece, nella fede cristiana e nell’esperienza cristiana proposta da don Tommaso, ciò che è accaduto duemila anni fa, Dio che si è fatto uomo, sta accadendo ora. È una Presenza.

Questo ha voluto dire don Tommaso con la testimonianza della sua vita. E della sua morte. Egli ha creduto in questa Presenza viva. Ha cercato questa Presenza. Quante volte, insieme a lui, si è recitato il Salmo 62: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco […]. Quando penso a te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all’ombra delle tue ali».

Nella morte di ogni uomo, anche questa vissuta “all’ombra delle tue ali” come recita il salmo, c’è qualcosa del valore della vita che si è vissuta. Come nell’atleta che taglia il traguardo alla fine della gara si può vedere tutto il valore dell’atleta. Nel caso di don Tommaso, questa “gara” assume evidentemente un valore tutto particolare.

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È sempre difficile scrivere della vita di un sacerdote, vita che come sappiamo viene misteriosamente consegnata nelle mani di Dio. Nello stesso tempo però possiamo vedere come la Chiesa stessa descrive, rivela il senso di una missione sacerdotale, mettendoci così in grado di comprendere almeno qualcosa di questo mistero.

Per una lettura appropriata della vita e della missione di don Tommaso Latronico vogliamo pertanto andare a ricercare i segni della sua vocazione nella comunità ecclesiale e nell’epoca nelle quali si è trovato a vivere. Noi troviamo illuminanti a questo proposito le parole dell’amatissimo papa Giovanni Paolo II pronunciate nella solenne liturgia di inizio del pontificato1. Del resto, è proprio il pontificato del papa polacco a circoscrivere buona parte dell’azione pastorale di don Tommaso.

Giovanni Paolo II in quel memorabile discorso richiamava ciò che scriveva Henryk Sienkiewicz nel suo famoso romanzo Quo vadis dove l’autore sorprende l’apostolo Pietro mentre si allontana da Roma durante la persecuzione contro i cristiani scatenata da Nerone.

Non ci sarebbe stato niente di strano in questo allontanamento, dovendo sembrare naturale allontanarsi da Roma, dove i cristiani venivano perseguitati, dove cioè la presenza cristiana non era gradita. Gesù stesso, secondo le parole dell’evangelista Matteo, aveva detto: «Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi2».

Lungo il tragitto però, prosegue il racconto, in maniera del tutto imprevista capita a Pietro di incontrare il Signore che percorre la stessa strada in senso contrario. Qui Pietro rivolge a Cristo la domanda che dà il titolo al romanzo: “Quo vadis, Domine?” Dove vai, Signore? E forse dietro questa espressione c’è anche la premura, da parte di Pietro, di suggerire a Cristo di evitare di entrare a Roma, troppo rischiosa ormai per chi si dice cristiano o per chi, addirittura, è Cristo stesso.

Cristo rivela a Pietro di essere diretto a Roma dove ha deciso di consegnarsi nuovamente per essere crocifisso. Cristo manifesta, dunque, la volontà di tornare nuovamente sul Calvario. E sceglie Roma – immagina Sienkiewicz – come luogo del nuovo Calvario.

Come sono belle, come sono umane a commento della posizione di Pietro in questa drammatica scena, le parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II: «Forse questo pescatore di Galilea non avrebbe voluto venire fin qui. Forse avrebbe preferito restare là, sulle rive del lago di Genesaret, con la sua barca, con le sue reti3».

Ma a Pietro l’incontro con Cristo aveva rivoluzionato tutto, aveva cambiato tutto. Come spiegava quel Papa, «spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione4». Per questo Pietro era diventato consapevole dell’unicità di Cristo: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole che danno la vita eterna5». Ma se l’uomo non sa cosa si porta dentro, continuava il Papa, «Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!6» “Non abbiate paura!” – parole che rimarranno per sempre scolpite nella storia dell’umanità e nel cuore degli uomini di tutti i tempi.

In forza di ciò, dunque, Giovanni Paolo II affermava in quella occasione: «permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna7».

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Ma come Cristo parla all’uomo? E come può oggi un cristiano annunciare questa unicità di Cristo? È questa una domanda che si è posto tante volte don Tommaso Latronico e che forse a lui hanno rivolto tanti giovani cristiani che lo seguivano e che erano desiderosi di annunciare Cristo. In quegli anni, uno di questi giovani è stato certamente Nunzio Longo, un farmacista che esercita la sua professione a Matera. Aveva incontrato don Tommaso quando alla fine degli anni Settanta, nella città dei Sassi, seguiva la nascente comunità di Comunione e Liberazione. Nunzio non ha concretamente aderito al movimento di CL, nonostante ciò ritiene don Tommaso il suo principale educatore. «Addirittura» ci dice, «don Tommaso è stato determinante sulla mia educazione anche più dei miei stessi genitori che pure tanto si sono spesi per questo8».

Nunzio Longo, farmacista, biologo e giornalista, è noto per i suoi contributi dati allo studio dell’etnomedicina; cioè di quella serie di credenze con cui nei secoli scorsi si affrontava la malattia, credenze cui non era estranea la stessa magia, prima dunque che si affermasse la corretta pratica medica su base scientifica. Spesso Longo è chiamato a tenere conferenze su questo argomento, anche all’estero. Ma in città, oltre che per questo, egli è conosciuto come il farmacista delle “periferie”. Ha infatti una farmacia, in società con un’altra farmacista, in un quartiere periferico di Matera e soprattutto si reca a La Martella, borgo distante qualche chilometro dalla città e purtroppo sprovvisto di farmacia. Qui provvede personalmente a consegnare farmaci a chi, come le persone anziane, non ha la possibilità di procurarseli o a chi, perché infermo, è impedito a raggiungere la città.

Come Cristo parla all’uomo? Al giovane Nunzio che gli aveva posto proprio questa domanda, don Tommaso gli rispose: «Puoi parlare di Cristo all’uomo attraverso la tua stessa vita. Studia, dunque, e diventa un bravo professionista9». Nunzio, pur non potendo comprendere immediatamente il senso di tale inattesa risposta, non ha dimenticato queste rivelatrici parole e ancora oggi, a distanza di molti anni, esercita la sua professione con questa consapevolezza. Ricorda, a questo proposito, un segno che per quanto piccolo ha legato significativamente la sua professione alla memoria di don Tommaso. Perché l’anniversario della sua laurea ricorre il 20 luglio. Dopo la morte di don Tommaso, è diventato inevitabile legare questo anniversario alla memoria di don Tommaso, deceduto proprio in un 20 luglio.

La vita di Nunzio documenta molto bene quello che diceva don Tommaso. Infatti, quante volte – forse ogni giorno – al farmacista esperto di etnomedicina, al cristiano Nunzio Longo, è capitato di doversi chinare sul bisogno dell’uomo, soprattutto sul bisogno dell’uomo dimenticato della periferia estrema della città. Perché è vero che Cristo parla all’uomo e sa di cosa abbia bisogno l’uomo; anzi, come diceva Giovanni Paolo II, “lui solo lo sa”.

È certamente vero che Cristo sa bene come parlare all’uomo, anche all’uomo contemporaneo. Cristo parla, come ci testimonia questo farmacista, attraverso la vita stessa dei cristiani suoi amici e parla la lingua di quella carità di cui i suoi amici possono essere capaci.

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Prima di giungere a Matera, Tommaso ha trascorso alcuni anni a Roma dove è arrivato nel 1968 per completare i suoi studi teologici presso la Gregoriana. A Roma incontra don Donato Peron, valdostano, e don Giacomo Tantardini, sacerdote di origini ambrosiane. Qui avviene l’incontro con il carisma di don Luigi Giussani attorno al quale proprio in quel 1968 prendeva vita il movimento di Comunione e Liberazione.

La vita della Chiesa in quegli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, e la vita della Chiesa di Roma in particolare, è segnata da “fermenti e turbolenze”, per usare un’espressione che Pasquale Bua ha adoperato nel volume dedicato alla problematica recezione del Concilio negli ambienti capitolini, libro intitolato Roma, il Lazio e il Vaticano II delle Edizioni Studium di Roma10.

Ma quella «è anche la stagione» prosegue Pasquale Bua, «della fioritura di nuovi movimenti ecclesiali. Questi ultimi guadagnano progressivamente terreno, soprattutto tra i giovani, prima a Roma e poi anche nel resto della Regione11».

Grande vivacità presentano negli ambienti romani alcuni nuovi movimenti come la Comunità di Sant’Egidio e Comunione e Liberazione, scaturiti tra l’altro entrambi dall’esperienza della Gioventù Studentesca; due movimenti con una significativa incidenza, particolarmente nel campo della cultura e della carità.

Scrive a questo proposito Bua nel citato volume: «Quanto propriamente a Cl, dopo un timido avvio, la sua avventura romana prende piede nel 1972 con l’arrivo di don Giacomo Tantardini, che sarebbe diventato l’anima del movimento e l’animatore di numerosi gruppi universitari dell’Urbe, intessendo intensi rapporti anche nei palazzi della politica cittadina e nazionale. Di questa fase saranno protagonisti fra gli altri Saverio Allevato, Lucio Brunelli, Roberto Perlini, Paola Fabbri. Anche i Ciellini svolgono opere caritative in alcuni quartieri di baraccati: Borgata Gordiani, Tor Marancia e Pietralata, dove don Donato prende a vivere insieme a don Tommaso Latronico in un appartamento12».

Don Tommaso percepisce quanto viene generato dal carisma di Giussani, di cui colpisce la straordinaria fecondità, come l’avvenimento di una novità di vita o, come più frequentemente dice don Tommaso stesso, il cristianesimo come un fatto di vita nuova. Di una vita cristiana che non consiste nella difesa a priori di una tradizione, ma in un radicale rinnovamento, presentandosi come una vita totalmente nuova, pur rimanendo saldamente inserita nella secolare tradizione cristiana. «La continuità» scriverà don Tommaso a questo proposito, «è data sempre da un nuovo inizio13».

A Roma, nel giugno 1973, Tommaso Latronico è ordinato sacerdote e qui inizia il suo ministero sacerdotale. A Roma si trattiene fino al 1975 quando viene chiamato a Matera dall’arcivescovo mons. Michele Giordano, futuro cardinale, che gli affida l’insegnamento di religione nel locale liceo classico. Ritorna nella diocesi di Tursi-Lagonegro, dove era incardinato, nel 1982 e viene nominato parroco di S. Maria Assunta in Nova Siri.

In queste poche pagine, però, vogliamo tornare alle parole di Giovanni Paolo II, per dire che l’immagine di Pietro che incontra il Signore sulla strada verso Roma descritta da Sienkiewicz non è soltanto una visione romanzata del cristianesimo. Anche nel Vangelo possiamo ritrovare la stessa scena quando Gesù era sul fiume Giordano e comunica la sua volontà di andare verso Betania dove era morto il suo amico Lazzaro e dove avrebbe manifestato la sua potenza, resuscitandolo.

Betania dista appena tre chilometri da Gerusalemme. Andare verso Gerusalemme significava dunque affrontare un grosso rischio, perché si sapeva che Gesù era braccato, si sapeva che a Gerusalemme era ricercato dalle autorità che volevano metterlo a morte. Possiamo immaginare quanta esitazione ci fosse tra i discepoli nell’assecondare la volontà del Signore. In quel momento, fu l’apostolo Tommaso a sorprendere tutti con la sua risposta: «Andiamo anche noi a morire con lui!14»

Solitamente dell’apostolo Tommaso si parla relativamente a quell’episodio successivo alla resurrezione, quando disse: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò15».

Spesso, anche nella predicazione, viene attribuito all’apostolo Tommaso un atteggiamento di incredulità, se non un cedimento al dubbio, rispetto alla fede; un atteggiamento comunemente noto, anche nella storia dell’arte, come “l’incredulità di Tommaso”. Però, possiamo nello stesso tempo vedere quanta determinazione c’è in questo apostolo: «Andiamo anche noi a morire con lui!» E quanto grande doveva essere l’amore per il Signore in questo suo amico detto Didimo, un nome che nel greco antico significa “gemello”, termine che più genericamente potrebbe significare anche “amico inseparabile”, come appunto inseparabili sono due gemelli. Tanto inseparabile da Gesù doveva ritenere di essere Tommaso da voler andare “a morire con lui”.

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Non troviamo parole più adatte di quelle dell’apostolo Tommaso, riportate nel Vangelo, per spiegare la ragione che spingerà poi don Tommaso Latronico, nell’estate del 1992, a voler tornare a Roma per affrontare il calvario della sua malattia.

La scoperta della malattia avvenne per don Tommaso in circostanze particolari – come è imprevedibile la vita! Era la sera del 12 settembre del 1992, giorno del matrimonio del fratello Cosimo. Si era nel pieno di una festa che si teneva all’aperto alla presenza di oltre mille persone e si può facilmente immaginare il clima festoso del momento; per tanti amici, inoltre, vi era la gioia di ritrovarsi tutti insieme così numerosi.

Ma, a un certo punto della festa un’amica, Clara Mannarella, staccandosi dal gruppo degli altri invitati, si diresse decisamente verso don Tommaso. Avendo notato con preoccupazione il pallore del viso, lo bloccò e gli chiese di mostrarle le mani. Clara è un medico ematologo, di fronte a queste evidenze ipotizzò seri problemi di salute16. Appena due giorni dopo, presso l’ospedale di Potenza, con una prima diagnosi, si aveva una conferma dei sospetti. Don Tommaso scoprirà di essere affetto da una leucemia mieloide acuta.

Massimo Borghesi, filosofo romano e docente all’università di Perugia, parla degli ultimi mesi della vita di don Tommaso in un libro della Libreria Editrice Vaticana dove sono pubblicate le omelie di don Giacomo Tantardini, volume dal titolo È bello lasciarsi andare tra le braccia del Figlio di Dio, con la prefazione di Papa Francesco.

In questo libro, Borghesi riporta le parole di don Tommaso alla scoperta della malattia: «La decisione di ricoverarmi a Roma decisa con Giacomo, la clinica, i cicli di cura, la compagnia davanti agli occhi, la casa di Casalbertone e di nuovo dentro la vita: il rapporto pieno di tenerezza di Giacomo con i ragazzi, il suo e il loro cambiamento, le cose di don Giussani17».

Non era soltanto per ricevere cure più adeguate al trattamento della sua leucemia che don Tommaso era voluto tornare a Roma. Era per tornare “dove tutto è cominciato”. In quei giorni, don Tommaso scrive all’amico romano Marco: «La decisione di venire a curarmi a Roma anziché in altri centri è stata immediata e dettata dal fatto che qui “ci siete voi” (parlo di Giacomo e di tutta la storia del movimento a Roma che non ho mai perso di vista)18».

Con questo, si può comprendere perché abbiamo voluto richiamare in queste pagine le parole del caro papa Giovanni Paolo II riferite all’apostolo Pietro durante l’omelia di inizio del pontificato: «Forse questo pescatore di Galilea non avrebbe voluto venire fin qui. Forse avrebbe preferito restare là, sulle rive del lago di Genesaret, con la sua barca, con le sue reti19».

«Dopo vent’anni» scrive don Tommaso Latronico a don Giacomo Tantardini, «mi portano dove non vorrei, nei luoghi dove tutto è cominciato e dove tu rimani. C’è una sola esperienza che col tempo cresce mentre le altre più belle si allontanano». In questo passaggio, il riferimento è a quanto aveva scritto in una precedente occasione: «C’è una sola esperienza che inizia e non finisce, e con il tempo cresce: è l’incontro con Cristo20». Quindi don Tommaso prosegue, rivolto a don Giacomo: «Non mi aspettavo da vecchio di stupirmi quando sto con te a mangiare o parliamo di tutto o ti vedo stare con gli amici più giovani o giocare nel cortile con un bambino… O giovinezza, non ti ho perduta…!21»

Pino Cosentino, originario di Policoro e residente a Pisa, dice di aver conosciuto don Tommaso «a 13 anni, grazie ai racconti di mia sorella che era sua alunna al liceo di Policoro e di Enzina Forleo che era la mia professoressa alla scuole medie. Tommaso è stato poi il mio professore di religione al Liceo22». Cosentino ha frequentato l’università a Roma dove si è laureato in Geologia. Oggi è ricercatore presso il Centro Nazionale delle Ricerche di Pisa.

Negli anni universitari trascorsi a Roma, Cosentino ha frequentato la comunità di Comunione e Liberazione. In quel periodo, Pino si recava spesso a trovare don Tommaso insieme a don Giacomo Tantardini. «Giacomo e Tommaso erano amici di Vita» dice, «la loro amicizia metteva al centro Gesù. Tommaso seguiva Giacomo, entrambi seguivano Giussani23».

Pino Cosentino ha un ricordo vivido dei mesi di malattia di don Tommaso trascorsi a Roma: «Ricordo Tommaso durante la sua malattia, sorridente. Ci chiedeva sempre del nostro studio. Parlavamo spesso dell’Università… e delle cose simpatiche che ci accadevano alle lezioni. Durante la sua malattia lo andavano spesso a trovare gli amici di Giacomo: Marco Bucarelli, Ettorino, Gianni Noto, Davide Malacaria, Fabio Pierangeli, Daniele Tondi e molti altri. Tommaso durante le sue cure è stato per un periodo ospitato a Roma alla casa dei Memores Domini a Casalbertone, vicino allo studentato voluto da Giacomo. Io abitavo lì ed era facile vederlo24».

Pino ricorda oggi: «la memoria di Tommaso è stata ed è sempre viva a Roma (come a Nova Siri), molti figli di miei amici universitari si chiamano “Tommaso” e negli ultimi anni anche “Giacomo”, in ricordo di questi due amici che ci hanno dato l’amicizia con Gesù, il Suo sguardo. La nostra piccolezza – la nostra Fortuna25».

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Nella sua decisione di tornare a Roma, dopo la scoperta della malattia, c’è stato in don Tommaso il desiderio di tornare dove tutto era cominciato. Dove era iniziata una vita nuova. Perché era consapevole che anche la morte è l’inizio di una vita nuova. Almeno, la sua fede cristiana dava a lui questa certezza. A Roma era accaduta una novità di vita. Una novità che pure è tanto antica. Un paradosso che è reso possibile dalla passione di Cristo che, aprendolo il tempo all’eterno, ha reso attuale la sua presenza. Questa Presenza, la presenza del Risorto, ha guidato i passi di don Tommaso verso il suo calvario.

Era la consapevolezza che soltanto la croce di un uomo, “crux fidelis”, soltanto questa croce “è degna di sostenere la vittima del mondo”. “Dulce lignum, dulces clavos, dulce pondus sustinet”. Quante volte don Tommaso ha proposto di eseguire questo antico canto. Soprattutto durante la Via crucis nel Triduo pasquale, che volle per la comunità di Comunione e Liberazione presente in regione fosse tenuta attorno al santuario mariano di Anglona presso Tursi, una tradizione che dura ancora oggi.

Era la consapevolezza, o il presentimento, di essere chiamato a tornare, come fu per l’apostolo Pietro del Quo vadis, dove Cristo sarebbe stato crocifisso di nuovo. A rendere ancora più evidente questa decisione è il ricordo di quando, nonostante fosse già gravemente malato, da Roma don Tommaso volle tornare un’ultima volta ad Anglona per la Via crucis del 1993.

A pochi mesi dalla morte e non più in grado di seguire il lungo percorso che si svolge intorno alla collina di Anglona, don Tommaso attese in chiesa il ritorno dei partecipanti alla Via crucis. Alla fine del rito, volle abbracciare tutti gli amici che nel corso degli anni, gioiosamente, avevano condiviso l’avventuroso cammino dell’esperienza cristiana.

Per questi amici don Tommaso era stato un sostegno, un aiuto a vivere intensamente la propria umanità. Era stato una compagnia, una guida. Con la sua vita, aveva volute rendere testimonianza di ciò che Cristo stesso vuole essere per i suoi amici e per tutti gli uomini: la piena, lieta consistenza della vita.


NOTE

1 Giovanni Paolo II, Omelia per l’inizio del pontificato. Basilica di San Pietro in Vaticano. Domenica, 22 ottobre 1978

2 Vangelo secondo Matteo, 10,14

3 Giovanni Paolo II, Omelia. Cit.

4 Giovanni Paolo II, Omelia. Id.

5 Vangelo secondo Giovanni, 6,68

6 Giovanni Paolo II, Omelia. Cit.

7 Giovanni Paolo II, Omelia. Id.

8 Nunzio Longo, Testimonianza resa all’autore, 16 luglio 2024

9 Nunzio Longo, Testimonianza, Id.

10 Pasquale Bua, Roma, il Lazio e il Vaticano II. Preparazione, contributi, recezione, Edizioni Studium, 2019, Roma. Pag. 43

11 Pasquale Bua, Roma, il Lazio e il Vaticano II. Id. Pag. 58

12 Pasquale Bua, Roma, il Lazio e il Vaticano II. Id. Pag. 60

13 Tommaso Latronico, in AA. VV. Amici in Paradiso. Piccole storie di cristiani, Prefazione di Giulio Andreotti, Edizioni San Paolo, 2000, Cinisello Balsamo. Pag. 112

14 Vangelo secondo Giovanni, 11,16

15 Vangelo secondo Giovanni, 20,25

16 Clara Mannarella, Testimonianza resa all’autore, 18 luglio 2024

17 Massimo Borghesi, in Giacomo Tantardini, È bello lasciarsi andare tra le braccia del Figlio di Dio, Prefazione di Papa Francesco, Libreria Editrice Vaticana, 2024, Roma. Pag. 494

18 Tommaso Latronico, in AA. VV. Amici in Paradiso. Cit. Pag. 113

19 Giovanni Paolo II, Omelia. Cit.

20 Tommaso Latronico, in AA. VV. Amici in Paradiso. Cit. Pag. 109

21 Tommaso Latronico, in AA. VV. Amici in Paradiso. Cit. Pag. 112

22 Giuseppe Cosentino, Testimonianza resa all’autore. E-mail, 24 giugno 2024

23 Giuseppe Cosentino. Id.

24 Giuseppe Cosentino. Id.

25 Giuseppe Cosentino. Id.

Don Tommaso Latronico, la fede, l’epoca

Quando a Nova Siri nasceva Tommaso Latronico era l’anno 1948. In  quegli anni la nazione era impegnata in una difficile opera di ricostruzione materiale e di pacificazione, dopo la sconvolgente esperienza della dittatura e della guerra. Nella Basilicata di allora questo processo però non poteva consistere semplicemente in una ricostruzione, non essendo riproponibile un modello di società come quello preesistente.

Fino agli anni dell’infanzia di Tommaso, agli inizi degli anni Cinquanta, infatti, questa regione è stata una terra dove ancora regnava il latifondo, una realtà tramandata dal lontano medioevo e con un’economia di tipo feudale. La terra era proprietà di alcuni grandi latifondisti che ne affidavano la conduzione ad amministratori i quali a loro volta la concedevano a coltivatori che, in realtà, disponevano di ben pochi mezzi per ottenere livelli di produttività in grado di assicurare dignitose condizioni di vita. Il problema della Basilicata di quegli anni, cioè, avrebbe dovuto essere anche quello dell’affrancamento da quel sistema feudale. Questo significava dover fare un “salto” di lunghi secoli per mettersi al passo con la storia.

Anche la Chiesa, fino agli anni Cinquanta era inserita in quella realtà storica – non poteva essere diversamente – e vaste erano anche le sue proprietà terriere. Si può immaginare quanto fosse rilevante, in quel contesto, il ruolo del clero locale.

Alla fine del 1950 viene approvata la legge di riforma agraria, in realtà una legge stralcio di ciò che doveva essere un quadro normativo ben più articolato per il rilancio del settore primario. Nonostante la sua incompletezza, grazie a questo strumento legislativo si provvide a una redistribuzione della proprietà terriera e alla bonifica delle aree territoriali. Il metapontino, dove sorge Nova Siri, sarà l’area che vedrà i più incisivi interventi di trasformazione: oltre un terzo delle proprietà espropriate nell’intero territorio regionale interessava la costa jonica tra Metaponto e Nova Siri.

C’era stato in passato anche il tentativo dei latifondisti più illuminati di introdurre delle innovazioni nella produzione agricola senza che nemmeno allora si riuscisse a migliorare le condizioni di vita della popolazione.

Nel corso dei secoli, la Chiesa, pur muovendosi in questo preciso contesto storico e pur con tutti i limiti che quel sistema economico presentava, aveva saputo offrire agli uomini del tempo, diversamente dai latifondisti,  anche le opportunità per riscattarsi da quelle condizioni di miseria. Lo aveva fatto soprattutto attraverso un’opera educativa, grazie a una capillare rete di istituti di istruzione e di formazione professionale; quando ciò mancava, come nei più remoti centri abitati, ricorrendo al personale impegno educativo dei sacerdoti. Si può dire che, in quei tempi, la Chiesa era l’unico soggetto educativo capace di fornire strumenti adeguati ad accedere a migliori condizioni di vita.

Quando, nel rispondere alla sua vocazione, Tommaso entrava in seminario avrà sicuramente voluto seguire quel modello di sacerdote educatore.

La trasformazione sociale che interessò la Basilicata negli anni del dopoguerra non riguardò soltanto il sistema economico e il superamento del latifondo. Un cambiamento non meno rilevante fu l’opera di bonifica di vaste aree del territorio regionale, una delle quali fu indubbiamente il metapontino. Furono anche questi problemi di igiene pubblica a essere determinanti nel crollo di quel mondo rurale. Il metapontino era una zona paludosa, dove per il ristagno delle acque la malaria era purtroppo una malattia endemica.

Negli anni della sua formazione, don Tommaso Latronico ebbe sempre viva la necessità di un rinnovamento, di una novità di vita, anche sociale; come fu consapevole della responsabilità dei cristiani nel promuovere migliori condizioni di vita. Questo era, del resto, il clima che si registrava nell’intera realtà della Chiesa lucana; un clima aperto al cambiamento, come era determinato dalla guida di pastori come Augusto Bertazzoni a Potenza, Vincenzo Cavalla a Matera, Raffaello Delle Nocche a Tricarico.

Questo processo di transizione aveva investito in quegli anni la Chiesa anche dall’interno, soprattutto per effetto del Concilio. L’itinerario di formazione di don Tommaso, prima nel seminario di Potenza e poi in quello di Salerno, si concluderà a Roma. Se questa città è sempre stata il centro della Chiesa, quando alla fine degli anni Sessanta vi giungeva Tommaso, era anche un luogo segnato drammaticamente da questo processo di trasformazione.

Quale posizione assunse il giovane Tommaso di fronte a questo rinnovamento che indubbiamente per la presenza cristiana rappresentava una provocazione di dimensioni epocali? La sua posizione fu quella di accettare di confrontarsi con questa provocazione, di mettersi in gioco. Perché se le verità cristiane sono immutabili, mutevole e sempre nuova deve essere la forma dell’esperienza storica del cristiano. Riprendendo quanto diceva il cardinale Ratzinger, don Tommaso scriverà più tardi: «la Chiesa può tornare ad essere un avvenimento se alcuni “obbediscono di cuore alla forma di insegnamento alla quale sono stati consegnati” (J. Ratzinger)».

In quegli anni Tommaso Latronico farà un incontro che segnerà la sua vita, l’incontro col carisma di don Luigi Giussani, oggi Servo di Dio. E fu in quell’incontro che egli comprese che la forma alla quale la Chiesa lo consegnava era il movimento guidato da don Giussani, Gioventù Studentesca prima e Comunione e Liberazione poi, soprattutto attraverso l’amicizia con don Giacomo Tantardini. Tommaso comprese anche che quanto riceveva da quell’incontro era sufficiente per affrontare la sua epoca con la proposta di una novità di vita.

Ma la fragilità dei rapporti di amicizia avrebbe potuto sostenere l’urto con la provocazione di quel cambiamento epocale così drammatico? Questo processo di trasformazione, infatti, non era indolore; non raramente generava tensioni e attriti, particolarmente in determinati ambienti giovanili, come erano le scuole e le università.

Erano gli anni della contestazione studentesca e poi della radicalizzazione della contestazione. Erano gli anni della lotta armata, anni di piombo. Non raramente si poteva vedere come tali tensioni degenerassero in episodi di violenza. Talvolta proprio ai danni delle comunità di Comunione e Liberazione come era quella romana alla quale allora faceva riferimento don Tommaso. Si poteva però osservare anche come reggesse bene quella fragile e giovanile amicizia di fronte a tanta ostilità.

Ordinato sacerdote il 28 giugno 1973, nel 1975 don Tommaso torna in Basilicata. È docente di religione a Matera, presso il liceo classico. Anche in questa città la situazione è incandescente e molto agguerriti sono i movimenti della contestazione studentesca, un clima che investe la Chiesa anche dall’interno e che portò a una clamorosa rottura nel clero locale.

La risposta di don Tommaso di fronte a tutto ciò non fu una contrapposizione; fu la semplice proposta di un’amicizia come poteva essere vissuta all’interno della comunità cristiana, come quella di Comunione e Liberazione. Lo ricordava bene Rocco Zagaria, in quegli anni preside del liceo scientifico. La proposta cristiana di don Tommaso era quella che aveva assunto in lui la “forma” di Comunione e Liberazione. Sul giornale diocesano Logos, Zagaria scriveva che «don Tommaso ha svolto una funzione essenzialissima nella diffusione del suaccennato movimento ecclesiale, nella nostra diocesi e ben oltre». Colpiva la sua autorevolezza, ricordava ancora il preside, come il suo carisma, la sua dolcezza dei modi e un fascino che scaturiva dalla sua fede cristiana; il preside ricordava come gli studenti della comunità di CL «riuscivano a contrastare vittoriosamente quelli della federazione giovanile comunista, allora egemone». «Io stesso e mia sorella» conclude Zagaria, «gli affidammo i nostri figli quindicenni che con don Tommaso andarono anche al convegno di Pesaro di CL».

È interessante a questo proposito notare che se affettuoso è il ricordo del preside Zagaria, non meno commosso è il ricordo di don Tommaso da parte di quelli che un tempo erano i giovani della sinistra, egemone nel mondo giovanile degli anni Settanta; quei giovani che, secondo Zagaria, i giovani di CL “riuscivano a contrastare vittoriosamente”.

Il giornalista Franco Martina ha raccolto per la testata online Giornalemio.it la ricostruzione che di quegli anni fa Gianni Fabbris, all’epoca leader di Lotta continua ed esponente del dissenso cattolico, oggi punto di riferimento delle associazioni degli agricoltori e degli allevatori meridionali.

Fabbris non condivide l’idea di una preconcetta contrapposizione che si sarebbe creata tra i cattolici di Comunione e Liberazione e i giovani della sinistra materana. No, dice a Franco Martina, «non ci fu uno scontro ma un confronto». Ricorda Gianni Fabbris su Giornalemio.it: «Era il lontano 1974. Frequentavo il Liceo scientifico Dante Alighieri e avevo fatto una esperienza particolare. Praticamente mi ero convertito. Ero diventato credente… fede che poi ho perso per strada. Avevo fatto delle esperienze di comunità, tra Matera e Bari, che mi avevano molto convinto di quella scelta. Dopo di che, da subito accadde una cosa strana. Con un buon gruppo di giovani entrammo in Comunione e Liberazione, pur non avendo capito bene – lo confesso – cosa fosse il movimento fondato da don Luigi Giussani».

Ricorda l’ex militante di Lotta continua: «c’era don Tommaso Latronico, davvero una bella figura di sacerdote, che arrivò a Matera dopo tre mesi buoni della nostra esperienza. Noi eravamo nella ”parrocchia” della cattedrale, dove avevamo fatto gruppo. Ma c’era un problema. Per noi era tutto normale. Eravamo ragazzini. Il punto è che suonavamo nella Messa e il canto di apertura di CL per la Messa era sulle note (e solo quelle) dell’Internazionale. Avevamo le idee un po’ confuse, per la verità…»

Arrivò, com’era inevitabile, il momento di un chiarimento con don Tommaso che guidava localmente il movimento di Comunione e Liberazione. Ricorda Fabbris: «A un certo punto, dopo una fase di impegno sociale e attività varie, facemmo una riunione con don Tommaso Latronico e fu veramente piacevole perché non ci fu uno scontro ma un confronto. Lui condivise molte delle nostre idee, e l’impegno verso gli ultimi era tra queste».

Ma dopo aver ascoltato le ragioni di quei ragazzi, don Tommaso disse: «Ragazzi se volete stare in Comunione Liberazione siete ben accetti, ma non potete cantare nè l’Internazionale e nè Bandiera Rossa».

«Fu una riunione illuminante» riconosce oggi Fabbris, «ne prendemmo atto, ci salutammo cordialmente e dissi a don Tommaso: “Siamo comunisti”. Nacque a Matera, così, l’esperienza e il gruppo dei Cristiani per il socialismo. Andammo alla Parrocchia di San Pio X, dove c’erano due sacerdoti straordinari come don Tommaso Rondinone e il viceparroco don Leo Cardinale, che più avanti lasciò la Chiesa».

In questa nota finale Fabbris fa riferimento a una grave frattura che si verificò allora nella Chiesa locale con l’abbandono, da parte di sei sacerdoti,, del presbiterio materano. Quelli furono forse gli anni più bui nella Chiesa di Matera. Ma come sempre accade in questi casi la risposta della fede autentica non è quella di una contrapposizione. Perché in questi casi, come si sa, Dio risponde sempre mandando dei santi. Don Tommaso Latronico fu uno di questi santi mandati da Dio a guarire le ferite e a riabbracciare i fratelli?

Non è questo un quesito cui si può rispondere qui. Certamente, però, si può dire che la risposta di don Tommaso alle provocazioni che venivano dalla sua epoca è sempre stata la fede cristiana. Il cambiamento d’epoca che ha investito il mondo e la Chiesa, è stato particolarmente profondo nel mondo di don Tommaso Latronico.

Il mondo feudale della sua terra, ancora soggetta alle leggi medievali del latifondo, non era più quello che aveva lasciato entrando in seminario; quel mondo non esisteva più. Perfino la Chiesa non sembrava più riconoscibile nella forma in cui l’aveva consegnata la tradizione. Il clero inoltre aveva perso quella rilevanza che aveva avuto nel corso di lunghi secoli.

Scriveva don Tommaso: «Nell’esperienza dell’uomo tutto passa e finisce. Soprattutto le cose belle (l’infanzia, l’amore…) sono destinate a finire nel rimpianto, nella nostalgia, e nel ricordo. C’è una sola esperienza che inizia e non finisce, e con il tempo cresce: è l’incontro con Cristo. È unico perché inizia in modo inimmaginabile, imprevisto e interessante, ti corrisponde e poi – se si rimane, se lo si guarda – è destinato con il tempo a crescere: non sei tu che cresci; che anzi invecchi, sei fragile e pieno di peccati, ma quell’avvenimento che cresce perché guardato attentamente, corrisponde, non censura, perdona».

Apprendendo della proposta di avviare la causa di canonizzazione di don Tommaso, Angelo Minieri ha voluto manifestare la sua commozione. Minieri è stato insegnante, è stato a lungo esponente del sindacato della CGIL, è stato consigliere regionale e presidente del Consiglio regionale della Basilicata, è stato sindaco di Matera. Da giovane era attivo militante delle formazioni politiche di sinistra e prima ancora aveva trascorso alcuni anni in seminario per verificare una vocazione sacerdotale.

Di don Tommaso, Angelo Minieri scrive: «Ho avuto modo di conoscerlo a Matera quando era con i suoi giovani di CL. Io all’epoca ero politicamente “dall’altra parte”; ma non mi sfuggiva la testimonianza cristiana del Movimento stesso, dove, ricordo, spiccava la testimonianza di don Tommaso. Qualche volta ci siamo fermati a parlare in via S. Biagio e mi colpì la pacatezza del dialogo pur testimoniando una posizione altra e diversa dalla mia. Poi il tempo ha riportato alla mente quel prete e l’esempio del suo impegno, oggi più che mai attuale ed esemplare. Che dire, alla fine ritrovo su questi esempi il mio essere cristiano e per un certo periodo impegnato nelle associazioni cattoliche, anche come seminarista».

Testimonianza del prof. Lucio Saggese

VIDEO – 29 giugno 2021, presso il Centro culturale “Cara beltà” di Salerno (videoconferenza), in occasione della presentazione del libro: Marco Bardazzi, Ho fatto tutto per essere felice. Enzo Piccinini, storia di un insolito chirurgo. BUR Rizzoli, 2021.

Interventi di S.E. Mons. Andrea Bellandi, Arcivescovo Metropolita di Salerno-Campagna-Acerno, di Anna Rita Piccinini, Medico presso Ospedale Sant’Orsola-Malpighi di Bologna, di Aniello Landi, moderatore e presidente Centro Culturale di Salerno “Cara beltà”.

In una testimonianza sulla presenza di Enzo Piccinini a Castelgrande (Potenza) in occasione del terremoto del 1980, Lucio Saggese ricorda anche l’opera di don Tommaso Latronico in favore delle popolazioni terremotate.