L’anniversario della morte di don Tommaso Latronico raduna sempre, nella sua Nova Siri, un gran numero di fedeli attorno alla celebrazione eucaristica in sua memoria, una celebrazione che si tiene puntualmente ogni anno da oltre trent’anni.
Cosa ridesta nella comunità cristiana l’evento di questa morte? Ridesta indubbiamente tanti ricordi, il ricordo per esempio di un’amicizia. Ma, in ognuno dei fedeli, ridesta qualcosa in più, qualcosa che rimanda al profondo significato della propria vita e al valore della stessa fede cristiana. Qualcosa che fa fare memoria del Signore nella vita della comunità. La memoria della Presenza.
E già questo è un prodigio. Perché solitamente la memoria va a qualcosa che non c’è più. A qualcosa che si è perso nel passato. Invece, nella fede cristiana e nell’esperienza cristiana proposta da don Tommaso, ciò che è accaduto duemila anni fa, Dio che si è fatto uomo, sta accadendo ora. È una Presenza.
Questo ha voluto dire don Tommaso con la testimonianza della sua vita. E della sua morte. Egli ha creduto in questa Presenza viva. Ha cercato questa Presenza. Quante volte, insieme a lui, si è recitato il Salmo 62: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco […]. Quando penso a te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all’ombra delle tue ali».
Nella morte di ogni uomo, anche questa vissuta “all’ombra delle tue ali” come recita il salmo, c’è qualcosa del valore della vita che si è vissuta. Come nell’atleta che taglia il traguardo alla fine della gara si può vedere tutto il valore dell’atleta. Nel caso di don Tommaso, questa “gara” assume evidentemente un valore tutto particolare.
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È sempre difficile scrivere della vita di un sacerdote, vita che come sappiamo viene misteriosamente consegnata nelle mani di Dio. Nello stesso tempo però possiamo vedere come la Chiesa stessa descrive, rivela il senso di una missione sacerdotale, mettendoci così in grado di comprendere almeno qualcosa di questo mistero.
Per una lettura appropriata della vita e della missione di don Tommaso Latronico vogliamo pertanto andare a ricercare i segni della sua vocazione nella comunità ecclesiale e nell’epoca nelle quali si è trovato a vivere. Noi troviamo illuminanti a questo proposito le parole dell’amatissimo papa Giovanni Paolo II pronunciate nella solenne liturgia di inizio del pontificato1. Del resto, è proprio il pontificato del papa polacco a circoscrivere buona parte dell’azione pastorale di don Tommaso.
Giovanni Paolo II in quel memorabile discorso richiamava ciò che scriveva Henryk Sienkiewicz nel suo famoso romanzo Quo vadis dove l’autore sorprende l’apostolo Pietro mentre si allontana da Roma durante la persecuzione contro i cristiani scatenata da Nerone.
Non ci sarebbe stato niente di strano in questo allontanamento, dovendo sembrare naturale allontanarsi da Roma, dove i cristiani venivano perseguitati, dove cioè la presenza cristiana non era gradita. Gesù stesso, secondo le parole dell’evangelista Matteo, aveva detto: «Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi2».
Lungo il tragitto però, prosegue il racconto, in maniera del tutto imprevista capita a Pietro di incontrare il Signore che percorre la stessa strada in senso contrario. Qui Pietro rivolge a Cristo la domanda che dà il titolo al romanzo: “Quo vadis, Domine?” Dove vai, Signore? E forse dietro questa espressione c’è anche la premura, da parte di Pietro, di suggerire a Cristo di evitare di entrare a Roma, troppo rischiosa ormai per chi si dice cristiano o per chi, addirittura, è Cristo stesso.
Cristo rivela a Pietro di essere diretto a Roma dove ha deciso di consegnarsi nuovamente per essere crocifisso. Cristo manifesta, dunque, la volontà di tornare nuovamente sul Calvario. E sceglie Roma – immagina Sienkiewicz – come luogo del nuovo Calvario.
Come sono belle, come sono umane a commento della posizione di Pietro in questa drammatica scena, le parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II: «Forse questo pescatore di Galilea non avrebbe voluto venire fin qui. Forse avrebbe preferito restare là, sulle rive del lago di Genesaret, con la sua barca, con le sue reti3».
Ma a Pietro l’incontro con Cristo aveva rivoluzionato tutto, aveva cambiato tutto. Come spiegava quel Papa, «spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione4». Per questo Pietro era diventato consapevole dell’unicità di Cristo: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole che danno la vita eterna5». Ma se l’uomo non sa cosa si porta dentro, continuava il Papa, «Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!6» “Non abbiate paura!” – parole che rimarranno per sempre scolpite nella storia dell’umanità e nel cuore degli uomini di tutti i tempi.
In forza di ciò, dunque, Giovanni Paolo II affermava in quella occasione: «permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna7».
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Ma come Cristo parla all’uomo? E come può oggi un cristiano annunciare questa unicità di Cristo? È questa una domanda che si è posto tante volte don Tommaso Latronico e che forse a lui hanno rivolto tanti giovani cristiani che lo seguivano e che erano desiderosi di annunciare Cristo. In quegli anni, uno di questi giovani è stato certamente Nunzio Longo, un farmacista che esercita la sua professione a Matera. Aveva incontrato don Tommaso quando alla fine degli anni Settanta, nella città dei Sassi, seguiva la nascente comunità di Comunione e Liberazione. Nunzio non ha concretamente aderito al movimento di CL, nonostante ciò ritiene don Tommaso il suo principale educatore. «Addirittura» ci dice, «don Tommaso è stato determinante sulla mia educazione anche più dei miei stessi genitori che pure tanto si sono spesi per questo8».
Nunzio Longo, farmacista, biologo e giornalista, è noto per i suoi contributi dati allo studio dell’etnomedicina; cioè di quella serie di credenze con cui nei secoli scorsi si affrontava la malattia, credenze cui non era estranea la stessa magia, prima dunque che si affermasse la corretta pratica medica su base scientifica. Spesso Longo è chiamato a tenere conferenze su questo argomento, anche all’estero. Ma in città, oltre che per questo, egli è conosciuto come il farmacista delle “periferie”. Ha infatti una farmacia, in società con un’altra farmacista, in un quartiere periferico di Matera e soprattutto si reca a La Martella, borgo distante qualche chilometro dalla città e purtroppo sprovvisto di farmacia. Qui provvede personalmente a consegnare farmaci a chi, come le persone anziane, non ha la possibilità di procurarseli o a chi, perché infermo, è impedito a raggiungere la città.
Come Cristo parla all’uomo? Al giovane Nunzio che gli aveva posto proprio questa domanda, don Tommaso gli rispose: «Puoi parlare di Cristo all’uomo attraverso la tua stessa vita. Studia, dunque, e diventa un bravo professionista9». Nunzio, pur non potendo comprendere immediatamente il senso di tale inattesa risposta, non ha dimenticato queste rivelatrici parole e ancora oggi, a distanza di molti anni, esercita la sua professione con questa consapevolezza. Ricorda, a questo proposito, un segno che per quanto piccolo ha legato significativamente la sua professione alla memoria di don Tommaso. Perché l’anniversario della sua laurea ricorre il 20 luglio. Dopo la morte di don Tommaso, è diventato inevitabile legare questo anniversario alla memoria di don Tommaso, deceduto proprio in un 20 luglio.
La vita di Nunzio documenta molto bene quello che diceva don Tommaso. Infatti, quante volte – forse ogni giorno – al farmacista esperto di etnomedicina, al cristiano Nunzio Longo, è capitato di doversi chinare sul bisogno dell’uomo, soprattutto sul bisogno dell’uomo dimenticato della periferia estrema della città. Perché è vero che Cristo parla all’uomo e sa di cosa abbia bisogno l’uomo; anzi, come diceva Giovanni Paolo II, “lui solo lo sa”.
È certamente vero che Cristo sa bene come parlare all’uomo, anche all’uomo contemporaneo. Cristo parla, come ci testimonia questo farmacista, attraverso la vita stessa dei cristiani suoi amici e parla la lingua di quella carità di cui i suoi amici possono essere capaci.
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Prima di giungere a Matera, Tommaso ha trascorso alcuni anni a Roma dove è arrivato nel 1968 per completare i suoi studi teologici presso la Gregoriana. A Roma incontra don Donato Peron, valdostano, e don Giacomo Tantardini, sacerdote di origini ambrosiane. Qui avviene l’incontro con il carisma di don Luigi Giussani attorno al quale proprio in quel 1968 prendeva vita il movimento di Comunione e Liberazione.
La vita della Chiesa in quegli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, e la vita della Chiesa di Roma in particolare, è segnata da “fermenti e turbolenze”, per usare un’espressione che Pasquale Bua ha adoperato nel volume dedicato alla problematica recezione del Concilio negli ambienti capitolini, libro intitolato Roma, il Lazio e il Vaticano II delle Edizioni Studium di Roma10.
Ma quella «è anche la stagione» prosegue Pasquale Bua, «della fioritura di nuovi movimenti ecclesiali. Questi ultimi guadagnano progressivamente terreno, soprattutto tra i giovani, prima a Roma e poi anche nel resto della Regione11».
Grande vivacità presentano negli ambienti romani alcuni nuovi movimenti come la Comunità di Sant’Egidio e Comunione e Liberazione, scaturiti tra l’altro entrambi dall’esperienza della Gioventù Studentesca; due movimenti con una significativa incidenza, particolarmente nel campo della cultura e della carità.
Scrive a questo proposito Bua nel citato volume: «Quanto propriamente a Cl, dopo un timido avvio, la sua avventura romana prende piede nel 1972 con l’arrivo di don Giacomo Tantardini, che sarebbe diventato l’anima del movimento e l’animatore di numerosi gruppi universitari dell’Urbe, intessendo intensi rapporti anche nei palazzi della politica cittadina e nazionale. Di questa fase saranno protagonisti fra gli altri Saverio Allevato, Lucio Brunelli, Roberto Perlini, Paola Fabbri. Anche i Ciellini svolgono opere caritative in alcuni quartieri di baraccati: Borgata Gordiani, Tor Marancia e Pietralata, dove don Donato prende a vivere insieme a don Tommaso Latronico in un appartamento12».
Don Tommaso percepisce quanto viene generato dal carisma di Giussani, di cui colpisce la straordinaria fecondità, come l’avvenimento di una novità di vita o, come più frequentemente dice don Tommaso stesso, il cristianesimo come un fatto di vita nuova. Di una vita cristiana che non consiste nella difesa a priori di una tradizione, ma in un radicale rinnovamento, presentandosi come una vita totalmente nuova, pur rimanendo saldamente inserita nella secolare tradizione cristiana. «La continuità» scriverà don Tommaso a questo proposito, «è data sempre da un nuovo inizio13».
A Roma, nel giugno 1973, Tommaso Latronico è ordinato sacerdote e qui inizia il suo ministero sacerdotale. A Roma si trattiene fino al 1975 quando viene chiamato a Matera dall’arcivescovo mons. Michele Giordano, futuro cardinale, che gli affida l’insegnamento di religione nel locale liceo classico. Ritorna nella diocesi di Tursi-Lagonegro, dove era incardinato, nel 1982 e viene nominato parroco di S. Maria Assunta in Nova Siri.
In queste poche pagine, però, vogliamo tornare alle parole di Giovanni Paolo II, per dire che l’immagine di Pietro che incontra il Signore sulla strada verso Roma descritta da Sienkiewicz non è soltanto una visione romanzata del cristianesimo. Anche nel Vangelo possiamo ritrovare la stessa scena quando Gesù era sul fiume Giordano e comunica la sua volontà di andare verso Betania dove era morto il suo amico Lazzaro e dove avrebbe manifestato la sua potenza, resuscitandolo.
Betania dista appena tre chilometri da Gerusalemme. Andare verso Gerusalemme significava dunque affrontare un grosso rischio, perché si sapeva che Gesù era braccato, si sapeva che a Gerusalemme era ricercato dalle autorità che volevano metterlo a morte. Possiamo immaginare quanta esitazione ci fosse tra i discepoli nell’assecondare la volontà del Signore. In quel momento, fu l’apostolo Tommaso a sorprendere tutti con la sua risposta: «Andiamo anche noi a morire con lui!14»
Solitamente dell’apostolo Tommaso si parla relativamente a quell’episodio successivo alla resurrezione, quando disse: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò15».
Spesso, anche nella predicazione, viene attribuito all’apostolo Tommaso un atteggiamento di incredulità, se non un cedimento al dubbio, rispetto alla fede; un atteggiamento comunemente noto, anche nella storia dell’arte, come “l’incredulità di Tommaso”. Però, possiamo nello stesso tempo vedere quanta determinazione c’è in questo apostolo: «Andiamo anche noi a morire con lui!» E quanto grande doveva essere l’amore per il Signore in questo suo amico detto Didimo, un nome che nel greco antico significa “gemello”, termine che più genericamente potrebbe significare anche “amico inseparabile”, come appunto inseparabili sono due gemelli. Tanto inseparabile da Gesù doveva ritenere di essere Tommaso da voler andare “a morire con lui”.
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Non troviamo parole più adatte di quelle dell’apostolo Tommaso, riportate nel Vangelo, per spiegare la ragione che spingerà poi don Tommaso Latronico, nell’estate del 1992, a voler tornare a Roma per affrontare il calvario della sua malattia.
La scoperta della malattia avvenne per don Tommaso in circostanze particolari – come è imprevedibile la vita! Era la sera del 12 settembre del 1992, giorno del matrimonio del fratello Cosimo. Si era nel pieno di una festa che si teneva all’aperto alla presenza di oltre mille persone e si può facilmente immaginare il clima festoso del momento; per tanti amici, inoltre, vi era la gioia di ritrovarsi tutti insieme così numerosi.
Ma, a un certo punto della festa un’amica, Clara Mannarella, staccandosi dal gruppo degli altri invitati, si diresse decisamente verso don Tommaso. Avendo notato con preoccupazione il pallore del viso, lo bloccò e gli chiese di mostrarle le mani. Clara è un medico ematologo, di fronte a queste evidenze ipotizzò seri problemi di salute16. Appena due giorni dopo, presso l’ospedale di Potenza, con una prima diagnosi, si aveva una conferma dei sospetti. Don Tommaso scoprirà di essere affetto da una leucemia mieloide acuta.
Massimo Borghesi, filosofo romano e docente all’università di Perugia, parla degli ultimi mesi della vita di don Tommaso in un libro della Libreria Editrice Vaticana dove sono pubblicate le omelie di don Giacomo Tantardini, volume dal titolo È bello lasciarsi andare tra le braccia del Figlio di Dio, con la prefazione di Papa Francesco.
In questo libro, Borghesi riporta le parole di don Tommaso alla scoperta della malattia: «La decisione di ricoverarmi a Roma decisa con Giacomo, la clinica, i cicli di cura, la compagnia davanti agli occhi, la casa di Casalbertone e di nuovo dentro la vita: il rapporto pieno di tenerezza di Giacomo con i ragazzi, il suo e il loro cambiamento, le cose di don Giussani17».
Non era soltanto per ricevere cure più adeguate al trattamento della sua leucemia che don Tommaso era voluto tornare a Roma. Era per tornare “dove tutto è cominciato”. In quei giorni, don Tommaso scrive all’amico romano Marco: «La decisione di venire a curarmi a Roma anziché in altri centri è stata immediata e dettata dal fatto che qui “ci siete voi” (parlo di Giacomo e di tutta la storia del movimento a Roma che non ho mai perso di vista)18».
Con questo, si può comprendere perché abbiamo voluto richiamare in queste pagine le parole del caro papa Giovanni Paolo II riferite all’apostolo Pietro durante l’omelia di inizio del pontificato: «Forse questo pescatore di Galilea non avrebbe voluto venire fin qui. Forse avrebbe preferito restare là, sulle rive del lago di Genesaret, con la sua barca, con le sue reti19».
«Dopo vent’anni» scrive don Tommaso Latronico a don Giacomo Tantardini, «mi portano dove non vorrei, nei luoghi dove tutto è cominciato e dove tu rimani. C’è una sola esperienza che col tempo cresce mentre le altre più belle si allontanano». In questo passaggio, il riferimento è a quanto aveva scritto in una precedente occasione: «C’è una sola esperienza che inizia e non finisce, e con il tempo cresce: è l’incontro con Cristo20». Quindi don Tommaso prosegue, rivolto a don Giacomo: «Non mi aspettavo da vecchio di stupirmi quando sto con te a mangiare o parliamo di tutto o ti vedo stare con gli amici più giovani o giocare nel cortile con un bambino… O giovinezza, non ti ho perduta…!21»
Pino Cosentino, originario di Policoro e residente a Pisa, dice di aver conosciuto don Tommaso «a 13 anni, grazie ai racconti di mia sorella che era sua alunna al liceo di Policoro e di Enzina Forleo che era la mia professoressa alla scuole medie. Tommaso è stato poi il mio professore di religione al Liceo22». Cosentino ha frequentato l’università a Roma dove si è laureato in Geologia. Oggi è ricercatore presso il Centro Nazionale delle Ricerche di Pisa.
Negli anni universitari trascorsi a Roma, Cosentino ha frequentato la comunità di Comunione e Liberazione. In quel periodo, Pino si recava spesso a trovare don Tommaso insieme a don Giacomo Tantardini. «Giacomo e Tommaso erano amici di Vita» dice, «la loro amicizia metteva al centro Gesù. Tommaso seguiva Giacomo, entrambi seguivano Giussani23».
Pino Cosentino ha un ricordo vivido dei mesi di malattia di don Tommaso trascorsi a Roma: «Ricordo Tommaso durante la sua malattia, sorridente. Ci chiedeva sempre del nostro studio. Parlavamo spesso dell’Università… e delle cose simpatiche che ci accadevano alle lezioni. Durante la sua malattia lo andavano spesso a trovare gli amici di Giacomo: Marco Bucarelli, Ettorino, Gianni Noto, Davide Malacaria, Fabio Pierangeli, Daniele Tondi e molti altri. Tommaso durante le sue cure è stato per un periodo ospitato a Roma alla casa dei Memores Domini a Casalbertone, vicino allo studentato voluto da Giacomo. Io abitavo lì ed era facile vederlo24».
Pino ricorda oggi: «la memoria di Tommaso è stata ed è sempre viva a Roma (come a Nova Siri), molti figli di miei amici universitari si chiamano “Tommaso” e negli ultimi anni anche “Giacomo”, in ricordo di questi due amici che ci hanno dato l’amicizia con Gesù, il Suo sguardo. La nostra piccolezza – la nostra Fortuna25».
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Nella sua decisione di tornare a Roma, dopo la scoperta della malattia, c’è stato in don Tommaso il desiderio di tornare dove tutto era cominciato. Dove era iniziata una vita nuova. Perché era consapevole che anche la morte è l’inizio di una vita nuova. Almeno, la sua fede cristiana dava a lui questa certezza. A Roma era accaduta una novità di vita. Una novità che pure è tanto antica. Un paradosso che è reso possibile dalla passione di Cristo che, aprendolo il tempo all’eterno, ha reso attuale la sua presenza. Questa Presenza, la presenza del Risorto, ha guidato i passi di don Tommaso verso il suo calvario.
Era la consapevolezza che soltanto la croce di un uomo, “crux fidelis”, soltanto questa croce “è degna di sostenere la vittima del mondo”. “Dulce lignum, dulces clavos, dulce pondus sustinet”. Quante volte don Tommaso ha proposto di eseguire questo antico canto. Soprattutto durante la Via crucis nel Triduo pasquale, che volle per la comunità di Comunione e Liberazione presente in regione fosse tenuta attorno al santuario mariano di Anglona presso Tursi, una tradizione che dura ancora oggi.
Era la consapevolezza, o il presentimento, di essere chiamato a tornare, come fu per l’apostolo Pietro del Quo vadis, dove Cristo sarebbe stato crocifisso di nuovo. A rendere ancora più evidente questa decisione è il ricordo di quando, nonostante fosse già gravemente malato, da Roma don Tommaso volle tornare un’ultima volta ad Anglona per la Via crucis del 1993.
A pochi mesi dalla morte e non più in grado di seguire il lungo percorso che si svolge intorno alla collina di Anglona, don Tommaso attese in chiesa il ritorno dei partecipanti alla Via crucis. Alla fine del rito, volle abbracciare tutti gli amici che nel corso degli anni, gioiosamente, avevano condiviso l’avventuroso cammino dell’esperienza cristiana.
Per questi amici don Tommaso era stato un sostegno, un aiuto a vivere intensamente la propria umanità. Era stato una compagnia, una guida. Con la sua vita, aveva volute rendere testimonianza di ciò che Cristo stesso vuole essere per i suoi amici e per tutti gli uomini: la piena, lieta consistenza della vita.
NOTE
1 Giovanni Paolo II, Omelia per l’inizio del pontificato. Basilica di San Pietro in Vaticano. Domenica, 22 ottobre 1978
2 Vangelo secondo Matteo, 10,14
3 Giovanni Paolo II, Omelia. Cit.
4 Giovanni Paolo II, Omelia. Id.
5 Vangelo secondo Giovanni, 6,68
6 Giovanni Paolo II, Omelia. Cit.
7 Giovanni Paolo II, Omelia. Id.
8 Nunzio Longo, Testimonianza resa all’autore, 16 luglio 2024
9 Nunzio Longo, Testimonianza, Id.
10 Pasquale Bua, Roma, il Lazio e il Vaticano II. Preparazione, contributi, recezione, Edizioni Studium, 2019, Roma. Pag. 43
11 Pasquale Bua, Roma, il Lazio e il Vaticano II. Id. Pag. 58
12 Pasquale Bua, Roma, il Lazio e il Vaticano II. Id. Pag. 60
13 Tommaso Latronico, in AA. VV. Amici in Paradiso. Piccole storie di cristiani, Prefazione di Giulio Andreotti, Edizioni San Paolo, 2000, Cinisello Balsamo. Pag. 112
14 Vangelo secondo Giovanni, 11,16
15 Vangelo secondo Giovanni, 20,25
16 Clara Mannarella, Testimonianza resa all’autore, 18 luglio 2024
17 Massimo Borghesi, in Giacomo Tantardini, È bello lasciarsi andare tra le braccia del Figlio di Dio, Prefazione di Papa Francesco, Libreria Editrice Vaticana, 2024, Roma. Pag. 494
18 Tommaso Latronico, in AA. VV. Amici in Paradiso. Cit. Pag. 113
19 Giovanni Paolo II, Omelia. Cit.
20 Tommaso Latronico, in AA. VV. Amici in Paradiso. Cit. Pag. 109
21 Tommaso Latronico, in AA. VV. Amici in Paradiso. Cit. Pag. 112
22 Giuseppe Cosentino, Testimonianza resa all’autore. E-mail, 24 giugno 2024
23 Giuseppe Cosentino. Id.
24 Giuseppe Cosentino. Id.
25 Giuseppe Cosentino. Id.